Vita da goffo tacchino
La
Miss ed io, ferme nel posteggio delle bici. Mi da fastidio una lente: la devo
togliere e risciacquare. All’istante.
Sotto
gli occhi increduli di mia figlia, caccio il borsone nel cesto della bici,
estraggo l’astuccio per le lenti, lo incastro in una fessura e faccio per levarmi
la lentina. Il cestino, trascinato dal peso, impone al manubrio una sterzata
che quasi fa cadere tutto l’ambaradan: con mossa repentina, evito il disastro.
Il che mi fa cadere gli occhiali dalla sommità testa, dove li avevo
momentaneamente posteggiati. Mi chino, con una mano sulla sella, li raccolgo,
mi appoggio addosso la bici e ritento. Stavolta va bene: riesco a toglierla. Però faccio cadere anche quella: vi sfido a trovare una lente trasparente del
diametro di mezzo centimetro, sul cemento e con la visione confusa (una lente
sì e una no, capirai…).
Mission
impossibile: però la fortuna aiuta gli audaci. O forse qualche nume ha pietà di
me: fatto sta che la individuo subito. La ripulisco e finalmente riesco a
inserirla in loco, stavolta senza incidenti.
La
Miss, costernata, commenta: “Pennuto, una volta o l’altra ti faccio un video e lo metto su Youtube. E
dopo ti lamenti che ti chiamiamo con tutti questi nomi buffi: ma si può
prendere sul serio una mamma così?!”
In
effetti, non si può.
Quando
mi accompagna al supermercato se non mi sorveglia tiro giù gli espositori con
il bordo del carrello, se invece non mi accompagna approfitto della sua assenza
per fare cose che, con lei, non oserei mai. Tipo entrare alla Cadoro appena
scesa dopo quaranta km di bici: tra abiti e capelli (avete un’idea di cosa
possano fare tre ore di bici alla chioma di una donna? Sono cose per stomaci
forti…) sembro uno spaventapasseri. Ma la cosa non mi ferma: conciata da far
paura, riempio un paio di sporte. Così torno a casa con la bici sportiva, la
divisa da ciclista, e le borse sul manubrio come la nonna Pina. Una pena.
Come
se non bastasse quello che combino da me, ci si mette anche la sfiga: oggi,
mentre sgambavo in mezzo alla natura, l’unico calabrone nel raggio di
chilometri decide di schiantarsi proprio nel mio occhio sinistro. Non sul: nel.
La preposizione è scelta ad hoc: mi becca in pieno l’occhio spalancato ad
ammirare l’orizzonte, non rovinandomi per sempre solo perché, quando faccio
sport, uso le lenti morbide. Diversamente, oggi la mia gita si sarebbe conclusa
al Pronto Soccorso.
Comunque
sia, l’incidente non rimane senza conseguenze: dopo mezzo minuto dall’impatto,
l’occhio inizia a bruciarmi e lacrimare copiosamente.
Fantastico! penso
Mi ci vuole solo un occhio come una
prugna, adesso…
La
fortuna m’insegue, come al solito. Meno male che giro sempre più attrezzata di
Mary Poppins: nel tascapane celo un caricatore intero di fiale di fisiologica.
Se stappo una, usandola per eseguire un risciacquo congiuntivale.
Funziona,
per fortuna: così, posso tornare alla base senza conseguenze visibili.
A
completare il quadretto, la borsa della piscina: non si sa come, mi si è aperto
il latte solare, che ne ha condito il fondo e, in parte, uno dei miei libri.
Per cancellarne ogni traccia, consumo mezzo barattolo di alcol denaturato: a
questo punto, quasi quasi mi procaccio un sorso di quello non denaturato. Mi sa che mi ci vuole, per arrivare di
buonumore fino a questa sera.
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