Due metri sotto il cielo


Pronti. Zainetto in spalla, scarpone classe ’94 ai piedi, congrua riserva d’acqua. Lenti come due cammelli, ci mettiamo in marcia: meta, rifugio Bellavista. Un nome, una garanzia: così sembra pensarla una comitiva di tedeschi, partiti in contemporanea a noi. Attrezzati come scalatori, sono carichi di entusiasmo e di energie: tanto carichi da risultare addirittura molesti.
Quando li hai dietro, t’incalzano per superarti, procedendo quasi di corsa. Per poi rallentare fino a fermarsi quaranta metri più sopra, impegnando tutto il sentiero, lamentandosi a gran voce – la gioventù – e osservandoti quasi con sorpresa, quando chiedi “Permesso…” per procedere con la tua ascesa. Mentre tu ti barcameni a mantenere l’equilibrio, camminando sul ciglio del sentiero, quelli restano con i piedi ben piantati a terra, senza spostarsi di un millimetro: al massimo, scostano il gomito. Mai visti dei teutonici tanto indisciplinati: di solito, si arrampicano come stambecchi, calmi e regolari, salutandoti con un compito Grüß Gott; sorridono di rado e non rompono. Mai.
Per nostra fortuna, dopo nemmeno venti minuti li seminiamo, abbandonandoli semisdraiati su un gruppo di massi, boccheggianti per il debito di ossigeno.
Jurassico procede, instancabile, mentre la sottoscritta gli arranca dietro, controllando a stento il ritmo del respiro. Dentro per il naso, fuori per la bocca, coraggio, un passo dopo l’altro… Il training autogeno è fondamentale, in queste circostanze: hai due opzioni. Animo, o rianimatore.
L’atmosfera è bucolica: sotto un cielo appena sbuffato di nuvole candide, si odono lo scampanio lontano di vacche al pascolo, il nitrito di alcuni cavalli e il consueto, simpatico fischio delle marmotte. Implacabile, il marito mi aggiorna in tempo reale sulla posizione raggiunta: attrezzato con un orologio supertechno, quello è in grado di calcolare i valori di pressione, temperatura e altitudine. Così so, nel dettaglio, quanto matti siamo, noi due vegliardi. Chissà se funziona anche da defibrillatore, l’aggeggio? Considerato che saliamo al ritmo di un metro ogni passo, non è escluso presto io ne abbia bisogno.
Questo tragitto l’avevamo percorso anche con i due “piccoli”, un paio d’anni fa. I ragazzi ne serbano ancora un agghiacciato ricordo. Valentina, ogni quarto d’ora circa, segnalava la sua prossima dipartita: “Muoio. Stavolta muoio veramente, il mio cuore non ce la farà…”. Matteo invece, durante la discesa, si era fermato a metà di un declivio, orrendamente scosceso, dichiarando: “Io di qui non mi muovo. Chiamate il carro attrezzi!”.
In effetti, la camminata è un tantino impegnativa: soprattutto verso la fine. Quando il rifugio ti appare davanti, sulla tua destra, aggrappato su una sella, comprendi il tuo destino: devi finire di scalare la montagna sulla quale ti trovi, per raggiungerlo, e attaccarne un’altra, infinitamente più ripida. Uno è già morto  per aver superato settecento metri di dislivello, e gliene rimangono altri 350. Ormai, è una sfida all’ultimo battito cardiaco: giunti fin qui, non la si può dare vinta alla montagna. Della comitiva festosa si sono perse le tracce. Non li incontreremo più: escludendo che siano precipitati in un ghiaione, è legittimo sospettare che abbiano gettato la spugna, tornando a valle. Valle per modo di dire, tra l’altro: si parte dai 2040, qui. Un dettaglio non irrilevante: oltre alla necessità di un certo allenamento, ci si mette anche la rarefazione dell’aria. Qui l’ossigeno scarseggia, a un certo punto della salita: mentre il sole picchia, impietoso.
D’improvviso, il rifugio sparisce alla mia vista.
Cammino, cammino, cammino, circondata da un paesaggio lunare; è tutto brullo: qualche sparuto ciuffo di erica fa capolino fra i sassi, ma per il resto sono solo pietraie, sopra le quali si ergono, maestose, le cuspidi rocciose. Aguzze come denti, mi sembrano digrignate contro di me: sto cadendo vittima di un complesso di persecuzione.
Il sentiero si snoda in mezzo ai massi, compenetrandosi con la pietraia. Diventa la pietraia: eccomi a marciare sui lastroni, procedendo contro il fianco della montagna, sovrastata da tonnellate di sassi, ammucchiati gli uni sugli altri. Meno male che questa non è una zona sismica. Ogni tanto, un segno tracciato sulle rocce mi informa che sì, la strada è quella giusta: dunque, quello di prima non era un miraggio. Il rifugio esiste, e prima o poi ci arriveremo. Il marito è sempre di cinquanta metri più avanti, spesso celato dalle rocce: ogni tanto spunta da dietro uno sperone, gialleggiando nella sua maglia fosforescente.
Poi, d’improvviso, un menhir: chiara opera dell’uomo, indica che la meta, stavolta, è vicina per davvero.
E, difatti, eccolo: stagliato contro la montagna, domina il ghiacciaio, che si estende fino a qui, con le sue lunghe lingue di nevi eterne. Il cielo, turchino, è terso; un laghetto color smeraldo, scintillante sotto il sole, completa la scenografia: perfetta.
Di colpo, l’immane fatica spesa per arrivare fin qui diventa poca cosa: il panorama è strepitoso e la prospettiva di farsi fuori un piatto di canederli e una fetta di strudel, pure. Qui, a quasi 3000 sul livello del mare, il cibo non è inquinato da influenze est-europee.
Scendendo a valle, quasi ci schiantiamo le ginocchia giù per la nostra pista da sci preferita. Quando arrivo al curvone finale, mi rendo conto che è poco meno di un burrone. E mi sorprendo a domandarmi quando decideremo di essere troppo vecchi, per queste cose: e a concludere che, probabilmente, non lo capiremo mai. E’ il guaio di essere rimasti giovani dentro.  

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