Clandestina a bordo


Che notte questa notte.
Jurassico incastrato in ospedale, di guardia, e la sottoscritta a casa, presenti figli e gatti tutti. O quasi.
La gattina grigia, in vena di free climbing, decide infatti di dare la scalata all’ulivo dei vicini, finendo sulla balaustra del terrazzo. Collocazione dalla quale non riesce più a schiodarsi: e vai con pianti ed alti lai. Il fratellino, di recente rinominato Corradino, la raggiunge per la stessa via, mostrandole un paio di volte quanto sia facile percorrerla a ritroso, mettendosi in salvo. Niente da fare: la ragazza è terrorizzata, e riesce solo a mugolare di paura.
Anche la mentegatta, mi ci voleva: quanto cretina devi essere, per non saper nemmeno fare il tuo mestiere di felino?
Davide e io siamo in stallo. Solito problema: se il figlio della signora ci becca a tentare la scalata ai balconi di sua madre, non abbiamo idea della sua possibile reazione. Non vorremmo finire impallinati come tordi: contrariamente a sua mamma, egli non ha un’aria molto cordiale. Meglio non correre rischi.
D’altro canto, a mezzanotte mi rifiuto di bussare alla porta dei confinanti: ergo, decidiamo di abbandonare la bestia al suo destino. Domani è un altro giorno: quando la casa riprenderà vita, mi farò viva anch’io. Sperando che, nel frattempo, la micia trovi la strada per uscirne con i suoi mezzi.
Poiché le disgrazie non vengono mai sole, alle due di notte scoppia un fortunale: Davide e io andiamo a sincerarci che la piccola non sia all’addiaccio, sotto le intemperie scatenate. Di lei non v’è traccia alcuna, sul terrazzo incriminato. Rassicurati, torniamo a dormire. O a provarci, nel mio caso.
Stamattina, alle sette e mezzo, mentre riordino rapida casa e giardino, prima che il caldo raggiunga quote insopportabili, verifico la perdurante assenza della bestia: dove si sarà cacciata?
Dopo una mezz’ora, un lamento proveniente da un’angolazione diversa, ma sempre dalla stessa casa, attira la mia attenzione: è lei. La mia vicina, non la mia gatta.
Sta implorando la mentegatta di farsi prendere in braccio, mentre l’imbecille indietreggia lungo il cornicione, accennando a una discesa, senza avere il fegato di portarla a compimento.  
Mi vergogno talmente che vorrei sparire dalla faccia della Terra.  Portando con me il gatto, ovviamente.
In tutto questo, il maschietto gira nervosamente qui e là, impettito e  con gli occhi spiritati, inviando brevi e secchi miagolii all’indirizzo della sorella. La quale gli risponde con i soliti, inutili lamenti.
Con la morte nel cuore, chiamo la signora: la quale, non appena mi vede, mi comunica che, per l’intera nottata, la micia si è aggirata per casa sua, nascondendosi sotto i mobili e frignando senza posa. Di farsi catturare, e defenestrare, non se ne parlava nemmeno: santo cielo. Che imbarazzo.
Tanto per cambiare, la poverina mi apre il portone e mi fa salire in casa sua. Sempre in camicia da notte, sempre a ore improbabili. Assieme a me, schizza dentro anche il maschietto, che mi fa da assistente nelle operazioni di recupero della naufraga. Nel mare di moquette.
La signora, poverina, è disperata: “Avevo sette gatti, li adoro i mici… Perché ha paura di me? Perché non si lascia prendere?”
“Perché è un peso, non una gatta, signora. Quando l’hanno assemblata si sono dimenticati di metterle il cervello. La prossima volta, fossero anche le tre del mattino, mi chiami, la prego: arrivo e gliela levo di torno. Non è possibile che lei passi le notti in bianco per colpa dei miei gatti!”
“Va bene. Allora restiamo d’accordo così…” mi risponde, titubante.
Questa signora è così gentile che strangolerei la gatta, per averla messa in difficoltà. Per la seconda volta.
Acchiappo la stupida, stappandola da sotto un letto, e fuggo più rapida che posso, con una gatta saldamente afferrata per la collottola in braccio, e un gatto molto eccitato che mi segue dappresso, coda in resta e orecchie dritte. Non c’è nemmeno bisogno di dire che non ho un filo di trucco addosso, sono vestita in modo più che approssimativo e che la mia chioma è più spaventata della gatta stretta al mio petto.
Un lunedì mattina come si deve, non c’è che dire.


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