Dimenticarsi un figlio

Rieccoli. Rieccoli i Soloni della porta accanto, di Grandi Inquisitori della mutua, i Caifa de noantri, tutti a stracciarsi le vesti per quella povera mamma di Arezzo, mettendola in croce e gridando allo scandalo.
Stuoli di non riprodotti, in cattedra a insegnare come si fa ad essere genitori perfetti.
Orde di genitori imperfetti, impegnati in una lapidazione di massa ai danni di quell’unica dimostratasi più imperfetta di loro.
Ergendosi dall’alto della loro piccineria, dozzine di omuncoli e donnicciole si sentono eroi per un giorno, perché a loro non è successo. Perché loro no, loro non l’hanno fatta un’enormità così.
Guardateli, gli autonominati genitori di successo, quelli che “se fosse stata mia, io…”, quelli che stanno sempre un passo avanti, finché non inciampano nei propri piedi, e finiscono faccia a terra.
Stiamo calmi, ragazzi. Stiamo tutti molto calmi, perché ci è solo andata di lusso.
Potevi esserci tu, al posto della mamma di Arezzo, proprio tu che ti agiti tanto, e la chiami madre indecente.
Come si fa a dimenticare un figlio? Cos’è, una busta della spesa?
Si fa, si fa. Fidatevi, si può fare, e non è nemmeno così difficile riuscirci.
Per fortuna, io me lo sono dimenticato all’asilo, a fare la mascotte nelle riunioni delle maestre, e non in auto, nel parcheggio dell’ipermercato. Ma mi sarebbe potuto succedere, lo so, e piango per quella povera mamma, alla quale è capitato sul serio.
A chi si scandalizza, rispondo: non ti sorprendere, ragazzo. Basta essere sempre di corsa, con dieci cose da fare nel tempo di tre, al centro del mirino perché un figlio non ti deve rendere meno performante, oppure sclerato perché da quando è nato non vedi altro che pappe, pannolini e popò. Le tre P che rovinano la vita del genitore principiante. La quarta P che ti frega, assieme alla E. La E di esaurito, perché quando i figli diventano due, tre o addirittura quattro – alcuni di noi si vogliono male – diventa persino peggio. A dimostrare che al peggio non c’è mai fine.
Se lo porti sempre all’asilo, è l’automatismo a rovinarti: lo porti sempre, da sempre, e confondi i ricordi. Così ieri diventa oggi, l’hai già lasciato a scuola, e puoi andare al lavoro.
Se non ce lo porti mai, è la mancanza di automatismo a fregarti: non ci sei abituato, e fai quello che fai sempre, da sempre. Vai al lavoro, parcheggi l’auto, e corri alla scrivania, infili il camice, ti lasci inghiottire dalla catena di montaggio.
Se lo porti qualche volta sì, qualche volta no, sei rovinato in partenza: nulla ti può aiutare a ricordare, e se sei in overbooking il tuo sistema cerebrale rischia d’impallarsi.
Basta una volta.
Una sola, maledetta volta, e tuo figlio non c’è più. E assieme con lui muori tu, tutti quelli che lo amavano, e quelli che amano te. Perché chi ti ama sa che sopportare il peso delle conseguenze della tua distrazione potrebbe riuscirti impossibile.
Quindi, facciamo tutti un enorme passo indietro e rispettiamo non un minuto, ma un’intera decade di silenzio.
Se ci sentiamo in vena di coinvolgimento, rivolgiamo un pensiero d’affetto, una silenziosa preghiera per quella bambina che non ce l’ha fatta. E per la sua mamma, per la quale la vita, da qui in poi, sarà solo sopravvivenza. 

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