Le valige nell'ingresso, parte seconda
Ce l’ho fatta. Ci sono riuscita a non mettermi in ridicolo un’altra volta.
Forse mi sto abituando, oppure mi aggrappo all’idea che Natale – con le
relative vacanze – arriverà presto, forse sto diventando grande anch’io…
Ma forse no.
Forse, la verità vera è che un’auto in tripla e un traffico indemoniato
annullano qualsiasi ciglio tremulo. Persino quello di una chioccia impenitente
come me. Raggiunto lo studente fuori stanza in stazione (dove era arrivato a
cavallo della mia gloriosa Wilier, catorcio ormai trentacinquenne, perfetto per
gli spostamenti in una città universitaria), gli ho consegnato la valigia al
volo, l’ho abbracciato rapida come una scimmietta e sono fuggita di corsa.
Lui, di contro, si è dovuto arrangiare a prendere un treno con una bici sfasciata in una mano e un trolley di discrete dimensioni nell'altra. Quel ragazzo deve avere
un angelo custode di una certa efficienza, perché mi risulta sia arrivato a destinazione sano
e salvo.
La seconda puntata di questa storia si concluderà però in serata, all’ora
di cena.
Quando Jurassico arriva a casa, trovando la tavola apparecchiata per
quattro, diventa scuro come un temporale in montagna. Mangia silenzioso e imbronciato, finché non lo interrogo: “E
allora? Si può sapere che ti prende, che mi sembri un funerale?”
“Insomma! Sto pensando a quel povero ragazzo, che mangia tutto solo…”
“Guarda che non abita da solo. E poi te lo ha chiesto lui di prendergli una
stanza, mica l’abbiamo scacciato noi! Suo fratello mangia solo da un mese, mi
risulta. E l’ho visto in piena salute e di ottimo umore, ieri sera.”
“Quello sta a casa sua. Certo che sta benone!” chiosa lui, lapidario.
Quindi si allontana con passo da plantigrado, immergendosi in un programma di
motori o che so io. Più cupo che mai.
Presa da sconforto, scambio un paio di Whatsapp con il transfuga,
chiedendogli se gli posso telefonare. Solo dopo che mi ha sentito informarmi
nel dettaglio circa: sistemazione, spesa, cena, spazi e umore, senza ricevere
alcuna ferale notizia, l’uomo si rasserena.
Gli passo il figlioletto perché
lo possa salutare, ottenendo finalmente una schiarita della tempesta sulla sua
faccia.
E dopo saremmo noi mamme cariche di sensi di colpa, iperprotettive e incapaci di tranciare il
cordone ombelicale. Tzé.
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