Come mi fa battere il cuore lui...

Dopo quasi diciotto anni di relazione, Jurassico riesce ancora a provocarmi delle tachicardie notturne da infarto. Sono una donna fortunata: mio marito è un uomo raro.
Sabato sera, ore 23.40: rientriamo da una cena luculliana, durante la quale ci è stato servito, tra le altre cose, un piatto preteso afrodisiaco. La premesse per un dopocena frizzante ci sono tutte: come da copione, il plantigrado cade in letargo non appena toccato il cuscino, esibendosi quindi nel solito concertino di mezzanotte. 
La sottoscritta, rassegnata, si dedica per una mezz’ora circa alla letteratura d’evasione, salvo poi crollare addormentata a sua volta.
Trascorre un’ora.
Sono piacevolmente abbandonata tra le braccia di Morfeo, quando il mio vicino inizia a tossire, lamentarsi e agitarsi nel sonno tanto da svegliarmi.
Mi avvicino, mentre i colpi di tosse si fanno sempre più frequenti, lo prendo fra le braccia, bisbigliandogli dolcemente qualcosa per calmarlo, cercando di non svegliarlo di soprassalto. Lo faccio sedere sul bordo del letto, sperando che si riprenda: e la tosse, in effetti, si ferma di botto. Peccato che, al suo posto, parta una via di mezzo tra un ululato e un rantolo: una serie di atti respiratori infruttuosi, ai quali non corrisponde la prevista espansione del torace.
Sta soffocando! è il pensiero che come un fulmine mi attraversa il cervello: nel frattempo, il rantolo si fa sempre più violento. D’istinto, lo circondo con le braccia e tento una manovra di disostruzione. Un roba che ho visto fare al cinema un sacco di volte, che ho studiato in fisiologia, ma che sul campo non avevo provato mai.
Sarà la fortuna del principiante, sarà che non era la sua ultima ora, fatto sta che l’uomo riprende a respirare. Quattro colpi di tosse residui, poi la quiete dopo la tempesta.  
“Giuseppe!!! Come stai?!”
“Bene bene… Sto benissimo!” borbotta lui con indifferenza: si alza, va in bagno, poi si corica di nuovo e s’addormenta all’istante, senza degnarmi nemmeno di uno sguardo.
Nel frattempo, io sono spalmata dalla mia parte del letto, in un bagno di sudore e con le pulsazioni a trecento. Incapace di dormire – e ci credo! – trascorro le tre ore successive a spiargli il respiro, tremando a ogni cambio di ritmo. Dopo un altro piccolo accesso di tosse, gli dico: “Tesoro, ti fai una gastroscopia, per piacere? Secondo me hai il reflusso gastroesofageo!”
“Mhm. No, ho preso degli analgesici… Domani prendo un lo’ di Lansox…” farfuglia lui, in stato di semincoscienza ma sempre vigile, quando si tratta di NON curarsi.
Sfinita, mi addormento alle prime luci dell’alba: alle sette del mattino, il nostro eroe si sveglia, fresco e riposato, e mi attira a sé per darmi il consueto buongiorno.
“Mamma mia… Stanotte mi hai tolto dieci anni di vita!” protesto.
“Perché?” risponde lui, con espressione sorpresa.
“Non respiravi…”
“Meglio. Almeno non ho russato!” ridacchia lui.
“Vero. Rantolavi, però! In tutta franchezza, potendo scegliere, preferisco che ronfi…” mi indigno io.
“Ma di che parli?”
Black out totale. Il suo primo ricordo risale alla mia battuta sul reflusso: anzi, avanza addirittura l’ipotesi che io abbia sognato. Sì, sognato, magari: se non ho neppure dormito!
Ricostruisco l’intero episodio, facendogli riemergere i ricordi sino al momento in cui si alza e va in bagno: tutto ciò che è successo prima resta immerso nel buio.
Dopo aver risposto a un interrogatorio sulle modalità dell’incidente, incasso i complimenti del doc per la mia presenza di spirito, e mi abbandono quindi a un sano pianto liberatorio.
“Ma no, non fare così, via…” protesta lui.
“Lasciami sfogare, accidenti a te! Stanotte non sono riuscita a farlo perché ero preoccupata che tu morissi: adesso che sei vivo e vegeto, stai zitto e consolami!!!”
Dieci minuti dopo, siamo in cucina a fare colazione, come nulla fosse successo. Dopo aver inzuppato un paio di cuscini, mi sono calmata anch’io.
Certo che con quest’uomo le emozioni si sprecano. Prima o dopo, quello mi fa finire in Unità Coronarica. Me la sento.


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