Chi di spada ferisce...
... di spada
perisce. Io ne so qualcosa.
Antefatto: un’amica,
invitata a casa mia qualche giorno fa, si è vista sbertucciare dalla
sottoscritta per una defalliance da piscina. Il pomeriggio precedente, in vasca
appunto, all’ordine del negriero di fare uno scatto, correndo rapidissime sul
posto, aveva risposto sferrando una gragnola di pugni all’acqua. Con i piedi ben
saldi sul fondo, però. Alla terza ripetizione, la nostra aveva posato il suo
sguardo su di me, osservando la mia esecuzione: parevo tarantolata. “Ma usi
anche le gambe…?” se n’era uscita, scatenando l’ilarità mia e di chi era in
gruppo con noi.
Maligne: l’abbiamo
presa in giro a morte. Sfottò ripreso quando abbiamo rivangato l’episodio, a
cena da me.
Nemmeno due
giorni dopo, io ho fatto ben di peggio: macchiandomi di una colpa che potrebbe avere
gravi conseguenze sulla mia incolumità fisica. Oltre a fare di me lo zimbello
di chiunque verrà a conoscenza dell’episodio, ahimè.
Con una delle
mie solite mosse da prestigiatore ubriaco, ho fatto volare per la centesima
volta il mio telefonino: il quale s’è schiantato a terra, aprendosi in tre
tronconi. La perdita – sia pur momentanea – della batteria l’ha scoordinato un tantinello.
Il poveraccio non ha più riconosciuto nemmeno i numeri conosciuti: salvo
riprendersi, qualche ora dopo. Una specie di trauma cranico commotivo, in salsa
telefonica.
Stamattina
perdo una chiamata (aiutavo Jurassico a parcheggiare lo squalo: il terrore di
commettere errori mi rende sorda a qualsiasi altro stimolo sensoriale. Ci vedo
solamente) e trovo un messaggio in segreteria. E’ nonna Franca, che vorrebbe
fare due chiacchiere con me: una nonna non mia, tecnicamente, ma così simpatica
e affettuosa da essere stata adottata come tale da me e Jurassico. Prontamente,
chiamo l’ultimo numero in memoria. Nessuna risposta. Mi richiamano, e cade la
linea. Richiamo a mia volta, in un inseguimento assurdo durato almeno dieci
minuti.
Peccato che,
dall’altro capo del telefono, non ci fosse nonna Franca, ma Paolo, giovanotto venticinquenne,
assonnato e per niente felice di essere stato a più riprese disturbato alle
dieci e rotti del sabato mattina.
Volevo morire
sul posto: e in effetti l’infartaccio è stato evitato solo perché il mio cuore
è forte. L’imbarazzo, però, mi ha tramortita lo stesso.
Balbettando
come un’imbecille, mi sono scusata per l’errore, scaricando la colpa dell’accaduto
sulla tecnologia d’accatto del mio telefonino. In realtà, la colpa era solo
mia.
Il mio cellulare,
dopo il trauma, mi ripropone sempre come ultima chiamata quella di cui ha perso
la codifica: che era del malcapitato giovane, da me bruscamente svegliato stamattina.
Con grande
signorilità, il nostro non mi ha mandato dove meritavo. Anzi. Si è dichiarato
felice che non ci fossero emergenze, unico motivo per il quale vedeva ragione
di chiamarlo a quell’ora… In effetti, per procacciare compagni di tennis a mio
figlio esistono momenti migliori. E compagnie più adeguate: ve li vedete, mio
marito e i suoi cugini terroni, che mi vedono armeggiare col cellulare,
telefonando a ignoti giovanotti, per motivi ancor più ignoti?
Meno male che
tutti mi conoscono bene: mio marito ha scosso la testa, rassegnato, mentre i
parenti si sono fatti un’omerica risata alle mie spalle. Più scema di così si
muore, è deciso.
Onde evitare
ritorsioni, stasera mi sono fatta portare da Jurassico dove lavora la vittima
del mio stalking: lasciandogli una scatoletta di Roché, assieme a un post-it di
scuse. Chissà che la cioccolata lo addolcisca. Se non funziona, quando mi incontra quello
cerca di investirmi con la macchina. Oppure mi denuncia: se finisco in galera per molestie, almeno voi saprete il perché.
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