Volevo i pantaloni

Scena: tavolo della cucina, un foglio quadrettato, una squadra, una matita, una mamma prof e un gaglioffo discente e consenziente. 
Pare buona, vista così. 
“L’equazione di una retta parallela all’asse de…”
“Mamma?”
E’ il filosofo.
“Dimmi, tesoro.”
“Sai che fine hanno fatto le mie lenti? Erano in un bicchiere, sul lavandino...”
“Ahia!”
“Dorothy, vero? Le ha buttate!”
“Già. Domani l’avviso. Prendine un altro paio. E non invertirle!”
“Ma non mi fa nessuna differenza…”
“Sei astigmatico. La differenza c’è, anche se non si vede. Mettile giuste!”
L’uomo esce di scena, imbronciato.
“Dunque, la re…”
“Mamma…?”
L’informatico.
“Sì, tesoro?”
“Mi dai il tuo numero di conto corrente? Mi sa che ne ho uno vecchio…”
Mi alzo, consegnando all’informatico le mie coordinate bancarie.
Torno al mio posto.
"A noi, dunque. Se prendiam…”
“Mamma, fratello in avvicinamento. Lo vedo attraverso il vetro!”
Di nuovo il filosofo.
“Mamma…?”
“SI’, TESORO?”
“Devo andare a tagliarmi i capelli. Mi dai dei soldi?”
Mi alzo, prendo la borsa, estraggo il pacchetto delle tessere magnetiche.
“Eccoti il bancomat. Ti ricordi il PIN?”
“XXXXXX”
“Giusto. Ciao!”
“Ciao. Ah… Posso prendere la tua bici?”
“E vabbe’. Prendi pure la mia bici…”
Odio prestare la mia bici a quell’individuo. E’ ciclisticamente inaffidabile. Gliene hanno già fregate un tot: prima o poi, si fa rubare anche la mia. Senza contare che, quando le usa lui, le riduce a catorci in pochi mesi. La sua preda preferita, la bici della Miss, perde letteralmente i pezzi per strada.
Cerco di riprendere la mia spiegazione: “Se una r…”
Vibra il cellulare. E’, giustappunto, la Miss. La quale mi deve comunicare una cosa, chiedermene un’altra e significarmi tutto il suo immenso e piumoso amore.
Leggo e rispondo al messaggio, e riprendo: “x = a, dove a è un numero qualsiasi, rappresenta un…”
Ricompare l’informatico.
“ Mamma…?”
“Sì, tesorooooo?”
“Serve l’auto?”
“No.”
Servirebbe pace, ma non lo dico. Sembrerebbe poco carino.
“Allora io esco un attimo. Ciao ciao!”
“Ciao!”
Nella solita mise da barbone, il nostro prende la porta, diretto verso lidi ignoti.
Squilla il cellulare. Quello mancava, in effetti.
Come da manuale, l’oggetto è occultato da qualche parte, e produce un suono che sembra provenire dall’oltretomba. Prima che riesca a individuare la sua posizione, si zittisce. Il che mi costringe a ritelefonarmi – sono la persona che mi chiama di più, in assoluto – per ritrovarlo. L’avevo messo in borsetta: peccato avessi sbagliato borsa, cacciandolo in quella che oggi non ho utilizzato.
La chiamata era del marito, il quale mezz’ora prima aveva ignorato la mia. Ci scambiamo alcune battute, quindi chiudo la conversazione.
Il gaglioffo e io restiamo soli con Cartesio e i suoi assi.
“Mamma…”
“Eh?”
“Ma quante volte ti chiamano i tuoi figli, in una giornata?! E’ una cosa fuori di testa!!!”
“Vedo che inizi a capire, ragazzo!”
“Già. Meno male che, semmai, io sarò un PADRE!”
Distinzioni di genere: mio figlio ha capito tutto, della vita.
La sottoscritta, viceversa, prima o dopo va ai matti. Nonostante Basaglia.

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