Un post cimiteriale

Accompagnata da Jurassico, sono andata a trovare papà. Non lo faccio spesso. Il che non implica che non gli abbia voluto un gran bene: il problema è che la location dove lo trovo non è di mio gradimento.
Tanto per cominciare, sta a quasi duecento chilometri dalla Stamberga. E poi, i cimiteri (italiani) mi mettono tristezza. Troppo lugubri, immobili, pieni di Madonne dolenti e di Cristi riversi: freddi come il marmo di cui sono pieni, quasi morti.
Da ragazzina, in Inghilterra, ero rimasta affascinata da un camposanto nel quale mi ero imbattuta: una specie di giardino, tante piccole stele tutte uguali, sparse tra l’erba verdissima, con le signore che ci portavano a passeggio cagnolini e coniglietti a guinzaglio. Un posto pieno di vita, nonostante tutto. Nei nostri cimiteri, sembrano fuori posto persino i bambini. Figuriamoci gli animali da compagnia. I rari vivi presenti hanno l’aria un po’ imbambolata: siamo un po’ impacciati nei movimenti, tutti. Cerchiamo di apparire rispettosi, col risultato di assomigliare vagamente ai manichini di Madame Tussaud. Almeno, a me capita così: la disinvoltura mi cade all’ingresso, tramortita dall’odore dei cipressi e dei fiori in decomposizione. Tremendo.
Andare a salutare i nostri cari non dovrebbe corrispondere a una sensazione di gelo nel cuore, ma a un senso di calore e di amore. Invece, mi tocca smarcarmi da un Cristo che m’indica torvo il suo cuore trafitto, con tanto di spade infisse nei ventricoli, come aghi su di un puntaspilli. Fronteggio due donne intorcinate tra i veli, bocconi a terra, con gli occhi rovesciati rivolti al cielo, in un’espressione che, credo, vorrebbe essere estatica. Invece, per via delle bocche spalancate e della postura contorta, a me pare siano dal dentista, pronte per il trapano: il che spiegherebbe l’aria sofferente.
Tralci, fiori, qualche putto, cuori e libri dei morti, aperti su chissà quale pagina eterna: la fantasia degli scalpellini si sbizzarrisce, con esiti perlomeno discutibili.
Insomma, ve lo confesso: sarà che l’arte funebre non è nelle mani di maghi dello scalpello, oppure per via della mia scarsa sensibilità artistica, ma quando entro in un cimitero finisco sempre col notare qualche particolare d’involontaria comicità.
Un esempio per tutti: Attilio Son Perito Chimico.
Qui si usa mettere il titolo di studio, pure sulla tomba: con i tristi risultati di cui sopra.
Nonostante tutto questo, devo riconoscerlo: dove abbiamo la tomba di famiglia noi qualche particolare carino c’è. Localizzato in alto, su una collinetta, per arrivarci fai una breve passeggiata in mezzo a un boschetto, fiancheggiando un parco giochi per bambini. Lì, ricordo che i miei facevano pazzie, da piccini: ci rimanevamo per ore.
Così, anche se sto salendo per andare a passare la mano su una lapide, in una carezza che mi stringe ogni volta il cuore, mi ritrovo sempre a sorridere. Forse è un regalo di papà anche questo.
Poi, c’è Zia Gilda. Una zia viva: meglio precisarlo, visto l’argomento trattato oggi. Quella donna riesce sempre a farmi ridere.
Ieri siamo arrivati a casa sua senza preavviso: ci ha accolti comunque con un sorriso, intensificatosi quando ha visto che avevo con me il libro che ho scritto. In piedi in ingresso, a balconi chiusi e luci spente, all’incerta luce che filtrava dalla porta, la donna si è letta la dedica. Senza occhiali. Di molto sopra l’ottantina, quell’individua è una vera forza della natura.
Ci ha quindi guidati in salotto: dove le ho detto qualcosa, riguardo alla tomba di famiglia.
“Sono due anni che non ci vado” ci ha comunicato “visto che ben presto ci dovrò arrivare comunque, non vedo perché andarmi a deprimere prima del tempo!”
Troppo forte. Le ho risposto che fa benissimo: di sicuro parenti, genitori, marito e fratello comprendono a fondo le sue motivazioni. Il cimitero può attendere: in ogni senso. Che il Cielo me la lasci ancora a lungo, la mia ziastra. C’è già troppa folla, lassù.

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