Cose che detesto
Gli
infradito: secondi solo allo string fra le natiche, come strumenti di tortura,
pare siano un must. A meno di non adattarsi alla ciabatta simil-ortopedica,
identica a quella della zia suora: comoda, dalla presa sicura sul terreno, ma…
deprimente, nel suo obbrobrio. Di zoccoletti, più o meno leggiadri, nemmeno a
parlarne: col terreno accidentato, riesco a crollare miseramente persino dai
tacchi dei miei sandali neri. Base 5 cm, per un’altezza di 3: solo le misure da
parallelepipedo mi impediscono ripetute distorsioni alla caviglia. La Miss
sostiene che non so camminare: e ne ha ben donde.
Dunque,
mi sono piegata, acquistando un paio di
infradito bianchi per andare in spiaggia e sotto la doccia: peccato che la
spiaggia sia raggiungibile solo tramite una salita con 35% di pendenza. Scendendo, ho la
sensazione che il piede mi si tagli a metà; salendo, mi areno frequentemente:
la forza di gravità, combinata con il fondo sdrucciolevole della ciabattina
bagnata, mi fa slittare all’indietro. Così mi grattugio pure le piante con la
sabbia, annidatasi sotto i piedi. Mia figlia perde il fiato, risalendo al
camper: io, viceversa, perdo le scarpe. E la pazienza.
Solo
la mia bruciante passione per i flutti marini mi fa affrontare, quattro volte
al giorno, l’orribile percorso.
Poi,
ci sono i bambini. O, meglio, i loro genitori: le creature sono responsabili
solo in parte della loro odiosità. Sì: odiosità. Mi rifiuto di essere politically
correct, circa questo argomento: quando allevavo i quattro dell’Apocalisse,
sudavo sangue per renderli il meno molesti possibile. Dalle minacce di morte se
sconfinavano urlanti negli spazi altrui, allo stato di cattività durante le ore
del primo pomeriggio, per finire con le estenuanti partite di bocce, beach
volley, volano, freesbie e chilometriche nuotate, sempre col ruolo di elemento
trainante di file di piccoli natanti, ci ammazzavamo noi, pur di stancarli.
Lontano dalle zone popolate, tra l’altro. Per non parlare degli orari: alle
nove già in spiaggia, per ritirarsi massimo alle undici e mezzo. Dalle cinque
alle sette e mezzo, alla sera. Dopo aver trascorso il torrido intervallo del
pranzo a preparare la cena per le piccole fiere.
Ora
che i miei hanno raggiunto un rispettabile tonnellaggio, e toccherebbe a me godermi in santa pace la mia
vacanza, mi tocca imbattermi con detestabile frequenza con orde di minori,
lasciati allo stato brado. Assisto a scene surreali: un bimbetto di tre anni
circa, bello come un angelo, semimmerso in una piscinetta, in riva al mare. La
sorella maggiore lo avvicina, ammonendolo sottovoce a non fare qualcosa: la
belvetta si scatena con violenza improvvisa, iniziando a ruggire improperi,
schizzando d'acqua la sorella e fissandola con sguardo carico d’odio. Pare voglia
ammazzarla. La ragazzina indietreggia, quasi impressionata, esclamando: “Ueh,
calmino, eh?”
La
madre? Non pervenuta. Il padre? “Caterina… Andiamo! Finiscila!!!”
Che
capolavoro di intervento: risolutivo, senza alcun dubbio. Caterina si ritira in
buon ordine, la scimmietta riprende a tirare sabbia attorno a sé.
Poi,
ci sono i piccoli principi, o piccole principesse. Figli unici, o ultimi nati
di madri sull’orlo della crisi di mezza età, che fanno il terzo (di solito, è
il terzo. Se è il quarto difficilmente le cose vanno come descriverò..) per
sentirsi di nuovo giovani. Meschine. Mai sentita tanto giovane e pimpante come
da quando non sono più informata sulle ultime novità della Pamper’s. Comunque
sia, il piccino di turno è vezzeggiato, coccolato e viziato come una pianta di
serra. A mezzogiorno, quando il resto del mondo vive, l’intera famiglia tace,
immota. I fratellini vengono allontanati col papà, mentre mamma legge,
silenziosa, sotto i pini marittimi: la creatura, treenne, dorme nel suo
passeggino. Che fra poco schianta, sotto il dolce peso. Siamo quasi fuori età,
con passeggino e seggiolone; che non manca, ovvio. E ci credo, che dorme:
stamattina giocava alla piccola cinciallegra, sotto le nostre finestre, alle
sette meno un quarto del mattino. Risvegliata de un trillo argentino, mi sono
sentita tutta la pubblicità dell’acqua Lete, cantata a voce spiegata; è seguito
il menù della colazione, giochi vari ed eventuali, tutti barriti in quadrifonia
stereo. Con il significativo apporto di una orgogliosissima madre, intenzionata
a mandare la piccola allo Zecchino. E, ovviamente, neppure sfiorata dall’idea
che ci sia gente la quale, a quell’ora antelucana, vorrebbe dormire. Figuriamoci.
Little Princess è sveglia: che si desti il mondo, pronto ad ossequiarla… La scena si ripeterà, allo stesso numero agghiacciante di decibel, alle due del pomeriggio.
E
dopo ci lamentiamo del fiorire di strutture no-kids. Sto pensando di servirmene
anch’io, in futuro… E per una multimadre convinta e felice, come la
sottoscritta, è una cosa pesante, da dire.
Poi,
ci sono i maltrattamenti di minore. Quelli mi tirano matta.
Madri
che, serafiche, espongono i loro lattei piccini – di pochi anni, quando non
addirittura mesi – ai crudi raggi solari calabresi, a mezzogiorno e mezzo.
Spesso sono pure biondi, con gli occhi cerulei: i più indifesi contro l’aggressività
ambientale di una spiaggia, a quell’ora. E cosa possono fare i poveri piccini,
se non urlare, resi isterici dalla calura e dal sole impietoso?
Giuro,
ci sono attimi nei quali allerterei il Telefono Azzurro, gli assistenti sociali,
persino i vigili.
Invece,
mi tuffo in acqua. Così sbollisco.
Per
fortuna, ci sono anche ragazzini simpaticissimi: ieri, ho fatto amicizia con
due fanciulle sui dieci anni. Mi hanno chiesto lumi sulla difficoltà del
percorso a nuoto fino alla boa, apparentemente poco distante, che mi avevano
visto raggiungere poco prima. Mi sono fatta mostrare come sguazzavano. E ho
consigliato loro di dedicarsi al raggiungimento della barchetta rossa, alla
fonda a pochi passi da lì. Meglio non iniziare lo sterminio degli innocenti,
partendo proprio da due esemplari bene educati…
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