Istinti incontrollabili

Sei e dieci. Del mattino.
Mi sveglio di soprassalto e fisso l’ora con orrore: Matteo è già partito di sicuro. Perché non mi hanno chiamata, quei due? Proprio oggi che quello va in gita devono scoprirsi autonomi? Mannaggia a me, che non ho puntato la sveglia!
Travolta dal senso di colpa, mi slancio fuori dal letto: nemmeno aperto l’occhio e ho già un diavolo per capello. Concetto sottolineato nella pratica dalla chioma, che giustappunto inalbera un cornetto sulla destra del mio cranio: sembro un demonietto asimmetrico.
Con due occhiaie può fonde della Fossa delle Marianne, l’umor nero e un sonno feroce, mi tocca mettermi pure a domare le ciocche ribelli: non posso presentarmi al marito conciata così. Un briciolo di dignità lo possiedo ancora.
Raggiungo il consorte, trovandolo immerso nella navigazione della rete, in apparenza sereno. Beato lui. Con un figlio che si è allestito la borsa alle dieci della sera, e solo perché minacciato di sequestro di persona, io non sono altrettanto tranquilla.
Difatti, dopo un breve interrogatorio, scopro che il giovane ha scordato: l’ombrello, il k-way e di farsi i panini. Il suo intento era di prepararli freschi, al risveglio: non essendomi risvegliata io, stiamo freschi. Come da manuale, è partito senza.
Quello è il meno, in tutti i casi: la quantità di junk food stivata nel suo zaino è sufficiente a garantirgli cibo e bevande per un mese, altro che per due giorni. Tra i baratti con i maschi e qualche sguardo malandrino a una delle ragazze del suo folto corteggio, il mascalzone dovrebbe ottenere qualche panino e bevande a sufficienza. Non indago, ma secondo me il the alla pesca è finito anch’esso nel dimenticatoio.
Quello che mi preoccupa è l’acqua che si beccherà in testa, visto il meteo, in quel della Liguria. Provo a telefonargli, sperando di poterlo ancora beccare, sul filo della partenza: cellulare spento. Ovvio. Fedele compagno durante le ore ufficialmente dedicate allo studio, l’oggetto giace inutilizzato in qualche anfratto, quando sarebbe utile a noi poterlo raggiungere. Chissà se mai lo accenderà, nelle prossime ore.
Decido di agire da donna matura e sensata, archiviando l’episodio nella cartella “tragedie minori": non essendo di zucchero, il giovanotto non si scioglierà. Al massimo, gli cureremo un raffreddore.
Mi acconcio dunque a trascorre una giornata come tutte.
Nell’ordine, si verificano i seguenti accadimenti: faccio quasi inghiottire al lavandino le mie lenti a contatto, perdo ben due paia di occhiali contemporaneamente, abbandonando nel contempo il telefonino in un luogo imprecisato, ma impossibile da individuare. Come e più di sempre. Mi telefono: sono la persona che mi cerca più spesso, in assoluto. Il figlio filosofo scende le scale, porgendomi il telefono con aria rassegnata, scuotendo la testa. Certe volte il silenzio val più di mille parole.
Mi metto la crema per le mani, uscendo poi di corsa: guidando l’auto, mi rendo conto che sono senza la fede. E’ la prima volta che mi succede in sedici anni: la cosa mi fa sentire come se non avessi indossato le mutande. Perché sono così scema???
Non contenta, sbaglio a preparare il pranzo alla figlia, che torna affamata come un luccio e scopre che le ho predisposto un tipo di minestrone che detesta; tento di rimediare, con l’ausilio del figlio maggiore, ma il frigo vuoto (!), faccio tardi e mi precipito in piscina all’ultimo secondo. Per scoprire che ho scordato il costume da bagno.
Siccome le disgrazie non vengono mai sole, quello che compro in fase di altissima emergenza è di una misura troppo piccolo: una mia amica commenta positivamente su quanto io sia compatta, senza rendersi conto che, in realtà, è l’elastam modello breathless a creare tale illusione ottica. Quando, dopo un quarto d’ora, nota i solchi scavati dalle bretelle sulle mie carni, realizza quello che sto soffrendo.
Non paga, la sorte mi ha preparato un’altra sorpresa: tra tutte le cavigliere disponibili, ho scelto il paio col velcro bislacco. Al terzo balzo, la vigliacca si slaccia, riemergendo con un balzo a due centimetri dal mio naso. Va de sé che l’occasione è gradita all’istruttore per dileggiarmi a morte.
Eviterò di parlare del condizionatore dell’auto in panne, del cratere nel parcheggio che quasi mi scassa il semiasse e del delirio che trovo all’ecosportello, dove vado a ritirare i sacchetti del pattume. Mi concentrerò sul fatto che mi sono persa – ancora! – la macchina nel dedalo delle corsie. Un signore si accorge del mio disperato vagare e s’incarica di aiutarmi nella ricerca, appicciandomisi alle costole: due problemi al prezzo di uno. Ritrovo l’auto – grazie al cielo – e me la dò a gambe.
E dopo ci sono donne che si lamentano che dopo i quarant’anni non le guardano più. Io non vedo l’ora: a me i canuti non mi mollano. Manco oggi, che ho il look di un gufo e l’umore di un licantropo mamma. 
Alla quale hanno sottratto il cucciolo: diciamocelo, il problema è tutto lì. Chissà che arrivi presto domani. Altrimenti, non rispondo di me: a quanto sembra, il mio istinto materno è tuttora fuori controllo.  


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