Tre giorni di ferie

Ragazzi, che goduria.
In compagnia di due amici fidati, ci siamo spinti sino a Firenze: biglietti prenotati da casa, per evitare code chilometriche agli Uffizi e dintorni, ci siamo concessi settantadue ore di scorribande a briglia sciolta. Alternando scorpacciate d’arte ad altre assai più concrete, abbiamo percorso la città in lungo e in largo, camminando senza sosta come un branco di dromedari. Salvo poi, stremati, dormire come quattro ghiri: un letargo così profondo da non sentire nemmeno gli altri russare. C’è chi giura di averlo fatto: la sottoscritta non ha udito nulla. Avevo la reattività di un ciocco.
Il tempo è stato clemente, regalandoci un sole radioso e un cielo limpido come mai l’avevo visto: la scenografia, completata da un tondo di luna perfettamente circolare, ci ha aiutato a rendere i nostri amici davvero felici.
Eppure, non eravamo partiti sotto i migliori auspici: la sera prima della partenza, Jurassico era andato a letto con le galline. Ore dopo, determinata a raggiungerlo senza svegliarlo,  ho deciso di muovermi al buio: felpata come un Ninja, ho fatto per entrare in camera nostra. Col mio solito passo da generale d’armata, ho infilato la porta della camera: trovandola chiusa. Mi ci sono spiaccicata contro come una mosca su un vetro. Il botto non ha risvegliato solo il marito, ma anche i vicini, credo: ferita nell’orgoglio, non ne sono uscita indenne nemmeno nel fisico. Il sopracciglio sinistro, sollevato da un edema  improvviso, è rimasto paralizzato in un’espressione di perplessità. Una perplessità trasformatasi in attonita meraviglia, quando, ventiquattro ore dopo, ho ben pensato di concedere un bis: con il sopracciglio sano rimasto ho centrato secco lo sportellino dell’armadio, rimasto aperto per dieci secondi. Tanto mi è bastato per schiantarmici contro: quando si crea un ostacolo imprevisto, la sottoscritta non lo nota, evitandolo. Lo ignora, cozzandoci invariabilmente addosso. Con la mappa di lividi che mi ritrovo, potrei far passare l’amorevole Jurassico per un marito violento, accidenti a me.
Il mattino dopo, s’imponeva la classica trasferta ai bagni, per una doccia corroborante. Con i capelli appiattiti dagli eventi, salvo due ciuffi in vena di contorsionismo, la faccia scolpita dai cozzi e bianca come quella di un cadavere, resa ancor più livida dall’insulto del freddo mattutino, sono scesa dal camper. Sfoggiavo un simpatico paio di scarpe che uso solo in circostanze fangose, una tuta in pile che mi dona un aspetto insalsicciato, e, tocco di eleganza, una mantella rossa nella quale mi intorcino solo quando mi trovo a centinaia di chilometri da ogni forma di vita conosciuta. Insomma, ero la controfigura della Befana.
Dopo due passi, si alza una voce: “Valentina!!! Sei proprio tu?!”
Dimenticavo: non indossavo le lenti. Con faccia da Magù, mi sono messa a strizzare gli occhi, cercando di distinguere chi fosse la garrula signora che mi salutava con tanto entusiasmo: “Ahem, scusa, non ci vedo…”
Ci voleva solo il sole contro, a ciecarmi del tutto.
Nel frattempo, la signora mi aveva raggiunta e abbracciata: così, l’ho scoperto. Eravamo circondati.
Tutti i camper attorno a noi erano di castellani o loro amici: nel giro di cinque minuti, ero stata presentata a una mezza dozzina di sconosciuti. Che di sicuro racconteranno ai loro nipoti che a Firenze girava una befana smarrita, in evidente stato confusionale.
Mentre guadagnavamo il locale doccia, dove ho provveduto agli opportuni restauri, ho sentito il marito sibilare agli amici: “E’ come la betonega… Dovunque vada, trova qualcuno che conosce!”
Già. Forse dovrei tenerne maggiormente conto, quando mi vesto prima di spingermi all’aperto: specie quando viaggio in camper. Una situazione capace di tirare fuori la rom che c’è in me.
 Al nostro rientro a casa, però, i nostri amici hanno fatto del loro meglio per farmi sentire a mio agio: durante la cena, anzi, il pasto improvvisato allestito presso Casa per Caso, il lui della coppia ha fatto partire un proiettile. Tradito da un’oliva gigante, l’ha sparata sotto il tavolo, insidiando i calzoni di mio marito, il quale nel frattempo si schiantava dalle risate.  Imprecando come un carrettiere, il nostro eroe si è lanciato all’inseguimento dell’ovale, tipo rugbista, incitato dalle grida della moglie, che gli strillava dietro: “Segui la scia dell’oliva!” lanciandogli un foglio di carta da cucina “E pulisci anche le scarpe di Giuseppe!”
Non vi dico i commenti che sono affiorati da sotto il tavolo. Una volta recuperata, la colpevole di tanto trambusto non è stata inumata nel cestino dell’umido. Tutt’altro. Insultandola per la sua intemperanza, il nostro l’ha lavata sotto l’acqua corrente e l’ha divorata. Per dispetto.
Di fronte a questa scena da film, io riflettevo sui massimi sistemi: è proprio vero che spesso gli amici ci somigliano. Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei.

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