Una piccola (?) lacrima

Si dice.
Si dice per scherzare: “Cos’è quella faccia? Ti è morto il gatto?”
Si dice per sdrammatizzare: “Pareva il funerale del gatto”.
Eppure…
Eppure, è un autentico lutto. Un piccolo lutto, se vogliamo, un lutto in tono minore, un lutto che ti vergogni persino ad esternare: ma il cuore si stringe lo stesso. Si stringe tanto da farti piangere, da levarti l’appetito e da farti soffrire sul serio.
Perché loro, i nostri amici a quattro zampe, sanno essere nostri amici davvero. Ci vogliono bene, ci sono fedeli e ce lo dimostrano: i cani in modo lampante, i gatti, in modo più… felpato.
Eppure, sanno essere fedeli anche loro.
Morbidi e sornioni, ci concedono la loro preferenza e il loro amore esclusivo: Penelope, ad esempio. La mia micia tigrata preferita, quella che passava i pomeriggi acciambellata nella mia stanza, mentre io combattevo con subordinate, ipotetiche dell’irrealtà e aoristi.
A diciotto anni, andai in viaggio per due mesi: la micia non si dava pace. Incinta, le tentava tutte per riuscire a scodellare i suoi cuccioli nella mia stanza: e una volta sfornato il piccino (Tom), fu colta ripetutamente nell’atto di scalare un albero, col micino in bocca, col chiaro intento di portarlo in camera mia.
Al mio ritorno a casa sembrava impazzita: sfrecciava di qua e di là, saltando, mi girava attorno alle gambe, si faceva accarezzare, per poi scalare ora uno, ora l’altro albero, d’un fiato, delirante per l’entusiasmo di rivedermi.
Mia madre era strabiliata: “Non lo vedessi con i miei occhi, non ci crederei…” non faceva che ripetere.
Dopo cinque minuti di feste, la gattona corse a recuperare l’infante, portandomelo ai piedi, depositandolo lì, trionfante, affinché lo coccolassi. E con che orgoglio si prese mille complimenti, per aver prodotto cotanta meraviglia…
Ci volevamo molto bene, Penelope e io.
Voglio ricordarla così, vivace come una gattina, ringiovanita di colpo, per l’entusiasmo di rivedere la sua padroncina.
Indimenticabile Ciccio, il gattone nero di Davide. Quello era felice solo quando poteva stare con mio figlio maggiore. Al mattino, quando il ragazzo era a scuola, si piazzava davanti alla sua camera da letto, intonando un cantico d’amore, per chiamarlo. L’unico modo per farlo smettere era aprirgli la porta, permettendogli un giro di ricognizione. Una volta stabilito che il suo padroncino era a scuola, si adattava, passando il resto della mattina in giochi in giardino e scorribande nei dintorni. Salvo piazzarsi all’ingresso di casa, come una sfinge, più o meno all’ora dell’arrivo previsto del ragazzo. Che lo trovava lì, in attesa: una coccola, e via! Sul suo letto, diretto. Tutto il pomeriggio, ogni pomeriggio.
Dopo anni dalla sua morte, ancora vado a riguardarmi le sue foto, ogni tanto.
E che dire di Ettore? Un altro soriano, trovatello anche lui, lontanamente imparentato con Penelope.
Quello fu il gatto che regalò qualche piccolo momento di serenità al mio papà, consumato dal tumore. Il micio arrivava, silenzioso, saltava sul letto, e si acciambellava vicino a lui. Non addosso: vicino. Sembrava lo sapesse, che a toccarlo gli avrebbe fatto male.
Un gatto abituato a vivere fuori, passò tre mesi dentro casa, accanto a papà: il quale lo aveva soprannominato Il Consolatore.  
Indimenticabile la sua reazione, dopo la morte del suo padrone: entrò in camera. Si bloccò sulla soglia, emettendo due o tre brevi miagolii, come a chiamarlo.
Mamma ed io lo accarezzammo, spiegandogli tra le lacrime che papà non c’era più, purtroppo…
Il micio si girò su se stesso, uscendo dalla camera e di casa. Non provò mai più a rientrare, in quella stanza.
Per ognuno di questi gatti abbiamo speso ben più di una lacrima, quando sono scomparsi: sono animali, è vero.
Quello che non è vero è che siano solo animali.
Un pensiero a Blu, che si è addormentato per l’ultima volta, e un grandissimo abbraccio a Pulcina. A lei, e a tutti coloro che piangono, o hanno pianto, per la morte di un caro amico peloso. Una cosa è certa: loro, le nostre lacrime le meritano. Tutte.

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