Levatemi la patente

E’ successo di nuovo. Odio doverlo ammettere, specialmente in questa sede, ma è successo un’altra volta. Ho sbocciato una povera crista in parcheggio.
Una signora carina, educata e gentile, al punto da dirmi – dopo che le ho sfondato due portiere – “Signora, quando mi dispiace averla conosciuta in queste circostanze…”, frase in grado di farmi sentire un lombrico. Ancora di più, se possibile.
Almeno fosse stata una strega: no, Biancaneve. Biancaneve, dovevo andare a investire con la mia corazzata, accidenti a me.
I fatti: faccio per uscire da un posteggio, in retromarcia. Controllo i quattro lati dell’auto: attorno a me, il deserto. Il sensore di posteggio tace, gli specchietti riflettono un nulla alquanto rassicurante. Stacco la frizione con lentezza, spostandomi di trenta centimetri: a quel punto, il montante dell’auto mi blocca la visuale da sopra la spalla. Controllo lo specchietto, sempre vuoto, e con gli occhi fissi su di esso faccio altri dieci centimetri, nel silenzio più totale. Di colpo, un colpo. Mi blocco, e vedo un’auto, ferma sei metri più avanti di me, con la fiancata destra rientrante, dal fanale anteriore alla luce di posizione posteriore. Gesù, che botta!
Scendo, in contemporanea con la fatina buona, la quale nel frattempo esclama: “Signora, mi dispiace! Non l’ho vista, le sono venuta addosso… Guardavo il parcheggio libero!”
Roba da matti. Invece di minacciarmi di violenze varie, la signora mi sta porgendo le sue scuse. Per un incidente provocato da me. La rassicuro all’istante, chiarendo che la responsabilità della faccenda è tutta mia, gettando un’occhiata ai danni subiti dal mio posteriore. Robetta: la guarnizione del paraurti appena staccata e c’è un piccolo segno sull’angolo destro. Roba da sprofondare per la vergogna, osservando la distruzione alle mie spalle.
Compiliamo la constatazione più amichevole della storia della motorizzazione civile, e ci salutiamo con cordialità, dopo esserci scambiate i numeri di cellulare e un appuntamento telefonico, per aggiornarci sul prosieguo della vicenda. Anzi, quando finisco qui le mando un sms.
Considerazioni a margine dell’episodio.
Sono disperata. Dopo oltre un quarto di secolo di guida irreprensibile, ora m’invento di utilizzare le auto altrui come bersaglio! E non ne manco una, ovviamente: tre, in meno di due anni.
Vorrei morire, ma non so veramente cosa fare. Forse inizierò ad andare a fare la spesa a piedi, con una gerla sulla schiena e un cesto sulla testa, come le donne masai.
Se qualcuno pensa che guidi distrattamente – sospetto più che legittimo, conoscendo il tipo – vorrei chiarire che ciò non è vero. In tre situazioni riesco a tenere sotto controllo la mia disattenzione: nella professione, quando sorveglio dei bambini – miei e altrui – e alla guida di un’auto. Sapendo di che piede vado zoppa, ho creato una serie infinita di automatismi che mi impediscono di fare errori, in questi campi: perché questi sono campi minati. Qui, se ti distrai, fai il morto.
Ergo, non ho idea di cos’altro inventarmi, per porre fine a questa serie nera.  Mi sa che vado sul serio al Santo, per una benedizione cumulativa.
Il marito, il quale vagheggiava di acquistare un’auto ancora più lunga della nostra, da ieri ha modificato i suoi progetti: un metro più corta, la vuole. Dice che, a portare in giro a supermercati certi squali, si rischia di fare una strage di pesci piccoli. Il che è una tragica realtà, ahimè.
Tuttavia, non sono certa che ridurre il mio volume d’ingombro sia una soluzione definitiva: finché noi donne saremo sempre di corsa, incalzate dagli orari, coi minuti contati e un miliardo di cose da fare, queste cose continueranno a capitare. Se sei di corsa, non te ne accorgi, di certi dettagli: anche se il dettaglio è un'auto in agguato, o la coda di una cretina, che esce dal parcheggio alla cieca. O quasi. E le sbatti contro, rischiando pure di farti del male.
Uffa. Mi sto deprimendo.
Adesso m’infiltro in camper e acciuffo tre Kinder Cereali: sono lì dall'ultima uscita in ghiacciaio. E’ giunta l’ora di farne un uso terapeutico.





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