Dottoressa per un giorno

Il lavoro m’insegue. Fino a ieri pomeriggio sono riuscita a sfuggirgli, ma… stavolta mi ha beccata. Forse.
Un collega, temendo di trovarsi presto in crisi con il personale, sabato mi ha telefonato, chiedendomi se mi sia possibile dargli una mano, in caso di emergenza. Fatto salvo il problema che costui esercita a venti chilometri alla Stamberga, la proposta mi ha allettata: gli ho promesso di andare a trovarlo.
In forse lui, in forse io, ieri pomeriggio mi sono avventurata sul luogo del delitto.
L’idea era di fare una breve perlustrazione e prendere un primo contatto con il titolare: in realtà, mi sono fermata lì tre ore. Dopo due anni di vita in borghese, una full immersion in banco, ricette, perette per clisteri, pannolini, solari e raffreddori. Imbranata come una novellina, non sapevo nemmeno dove fosse l’aspirina, m’intrigavo con lo schermo del PC, terrorizzata di sbagliare uno scontrino. Sulle ricette, per fortuna, non ho perso un filo di smalto: e ci ho messo dieci minuti, a capire come sono organizzati con le scorte, almeno delle scatolette. E’ uguale ad andare in bici, dopotutto: come sali in sella, ti ricordi come  mantenerti in equilibrio.
Che strana sensazione. Dopo aver vestito un camice bianco per metà della mia vita, credevo di aver tirato una riga, su questo aspetto della mia esistenza.
La dottoressa Valentina? Chi l’ha vista. 
Certo, ogni tanto mi ritrovo a dar consigli al supermercato, davanti al banco surgelati: se qualcuno mi riconosce, mi interpella immantinente.
Un altro posto pericoloso sono i parcheggi: e non solo per la mia abitudine a sbocciare le altre auto. Nei posteggi sbucano spesso vecchi clienti. Fra carrelli da scaricare e auto in sosta, non è improbabile sorprendere Mpc impegnata in toccanti conversazioni, fatte di rimembranze antiche, rimpianto – da parte dell’utenza, non mia… - e talvolta qualche lacrima. E lì mi vergogno per davvero: davanti a un bagagliaio stracolmo di derrate alimentari, mi abbandono a baci e abbracci lacrimevoli, con persone che, per un lungo periodo, hanno fatto parte integrante della mia vita.
Credo sia questo, in realtà, l’unico aspetto che mi manca: il rapporto umano creato con la clientela. O che si dovrebbe creare: il condizionale ormai è d’obbligo.
In un sacco di posti, fa premio lo stile bazar. Ho visto vendere di tutto: dai calzini alle collane, dai miracoli per i capelli caduchi ai  pagliaccetti per bambini. Quasi scomparso il consiglio, a favore dell’esposizione aggressiva. Per arrivare a vedere un essere umano, possibilmente con un camice addosso, ti devi fare un giro di valzer con un espositore di ciabatte, uno di limette per le unghie, un muro di cosmesi e mille pinzellacchere.
A me viene il nervoso: ma mi hanno detto che succede perché sono anziana. Sarà.  
Comunque sia, per me far la farmacista significa soprattutto essere un riferimento certo. Qualcuno cui ricorrere nei momenti di crisi: sanitaria, ma anche di altro genere. Ricordo che le mie signore – come le chiama Jurassico – quando avevano un problema, correvano da me: che trovavo una soluzione, oppure suggerivo cosa fare e dove andare, per affrontare la malaparata.
Nella farmacia in cui sono stata ieri, pare che lo stile sia proprio questo. Mi è piaciuto.
Se mi richiamano, perché si trovano davvero nei guai, credo proprio che questa volta non me la darò a gambe.
Chi l’avrebbe mai detto… forse hanno ragione tutti. Per me il lavoro è davvero una passione. 

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