Problemi esistenziali

No, oggi no. Oggi non ci ricasco.
Oggi mi organizzo con largo anticipo, così non faccio figure da cioccolatino in giro per il mondo: la borsa per la piscina è pronta da tre giorni. C’è dentro persino il lucchetto, che tre lezioni fa avevo scordato appeso a un armadietto. Tanto per non smentirmi mai.
Giunta a destinazione, per una volta non col fiato mozzo per la fretta, scopro di aver lasciato a casa, in un luogo imprecisato, la busta porta scarpe. Il giorno in cui arriverò in un posto senza essermi dimenticata qualcosa di fondamentale, squilleranno le trombe di Gerico. 
Mi prenderei a ceffoni, mannaggia a me! E’ una vita che combatto inutilmente con questa incoercibile distrazione, che rovina la vita mia e, spesso, quella dei disgraziati costretti a sopportarmi.
Da studentessa, quando ancora la memoria avrebbe dovuto sorreggermi, sono riuscita ad abbandonare un blocco con un semestre di appunti in una tavola calda, una collezione completa di ombrelli in giro per Padova, tre paia di occhiali da sole e uno di lenti a contatto. Me le ha soffiate un refolo, quelle: una folata me le ha strappate dalle mani, durante una delle mie consuete manovre di emergenza. Accecata dal vento, nel senso letterale dell’espressione.
Il massimo l’ho raggiunto durante uno dei miei primi esami universitari, comunque: dopo aver svolto senza errori uno scritto capace di stendere l’ottanta per cento degli iscritti all’appello, ho consegnato l’elaborato al professore. Un cerbero che ci terrorizzava tutti.
Per rendermi conto, ore dopo, di non averlo intestato! Compito perfetto, opera di ignoti: manco fosse una rapina in banca.
Per mia somma fortuna, ero davvero l’unica capace di macchiarsi di una simile idiozia, sicché, quando sono andata dal docente, offrendomi di rifargli il compito sotto gli occhi, questi m’ha fissata con aperto compatimento, ribattendo: “Mi scriva qui come si chiama, signorina…”
Dio lo benedica. Fosse stato carogna, mi sarei fumata un trenta, per la mia dabbenaggine.
Va da sé che, non essendo un vino di qualità, l’età non mi ha migliorata:  le mie fesserie si stanno moltiplicando a ritmo vertiginoso. Il che mi deprime. Molto.
E che fa, una donna depressa? Mangia. In modo compulsivo.
Ecco così che, dopo tre quarti d’ora spesi in piscina ad ammazzarmi di fatica, a costume ancora da stendere, mi macchio di un delitto gastronomico: affondo le fauci in una focaccina sfornata da poco. Tentazione irresistibile, per una donna nelle mie condizioni emotive. Un’esperienza dei sensi, per la cronaca: è proprio vero che i piaceri proibiti sono i più gustosi.
Inghiottito l’ultimo boccone di paradiso, mi auto infliggo una passeggiata di sei chilometri: ufficialmente, per comprare un antipiretico in farmacia. Ufficiosamente, per smaltire i miei sensi di colpa, se non le calorie clandestinamente introdotte. Va da sé che perdo un numero esagerato di minuti a cercare la borsetta, abbandonata sull’asciugatrice, la maglia che devo indossare, perfettamente mimetizzata con una busta dello stesso colore, in ingresso, e che mi rendo conto di aver scordato le chiavi di casa un secondo preciso dopo aver sbattuto il portone d’ingresso alle mie spalle. Faccio finta di niente. Mi vergogno, a suonare il campanello ai figli: ormai, mi chiamano il tenente Colombo. Torno sempre indietro due o tre volte, dopo essere uscita di casa.
Per fortuna, c’è il sole. Marciando decisa per le vie del paese, incontro diverse persone simpatiche, che mi fermano per salutarmi, riconciliandomi col mondo e soprattutto con me stessa. Certe volte, faccio davvero fatica a sopportarmi. Persino io.

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