L'ultima tentazione dello scribacchino (attenzione: NON sarò breve)

Autopromuoversi a scrittore in pectore. 
Ammettiamolo, via: noi scribacchini siamo tutti aspiranti pennivendoli, con tutti i rischi del caso.
Il lungo lavoro di autorevisione, assieme ai contatti con chi, come me, avverte incoercibile la necessità di metter su carta i suoi pensieri, mi sta facendo superare confini inaspettati, svelandomi scenari insospettabili. 
Volendo evitare di concentrarmi sulla pagliuzza nell'altrui apparato visivo, dove il mio è ingombro da un'intera trabeazione, parlo per me. Se poi qualcuno dovesse riconoscersi in quel che scrivo, mediti. Mediti con attenzione. 

Autoreferenzialità: questo è il peccato originale, quello con cui ci mettono al mondo. Quello letterario, almeno. Nella storia di ognuno di noi c'è una maestra, un professore, un docente in pensione, una zia di buon cuore o un'amica fidata, convinti di avere di fronte il futuro Manzoni. I più sfigati li hanno avuti tutti, così che la loro convinzione di essere potenziali best seller è diventata granitica. 
Comunque sia, avendoci preconizzato che, da grandi, saremmo diventati scrittori, ora passiamo all'incasso. 
Peccato che, tra il saper metter giù quattro righe ben fatte e costruire un romanzo che tenga, ci sia di mezzo non il mare, ma un'oceano proprio. Ci sono così tante trappole nelle quali rischiamo di restare impigliati da garantire la sconfitta alla maggior parte di noi. E anche se ci vien bene un romanzo, non è detto che il miracolo si ripeterà. 
Meglio farsi valutare dagli altri, e accettare l'eventuale giudizio negativo: se ci sono margini per un miglioramento, lavoriamoci su. Diversamente, dedichiamoci alla lettura. Passatempo sano, soddisfacente e utile a incentivare chi, diversamente da noi, sa scrivere e merita di essere letto. 

Autocompiacimento: figlio della precedente, e direttamente ad essa correlato. Come ci sono quelli che adorano il suono della propria voce, e ti stordiscono con i loro noiosissimi soliloqui, così esiste una categoria di imbrattacarte capace di scrivere quattro pagine sul nulla. Scrittura fine a se stessa, sotto la quale non riesci a individuare alcun contenuto, ma vedi benissimo, invece, il sorrisetto compiaciuto con il quale l'autore del pezzo incriminato si è letto e riletto. Ripetendosi, estatico: "Ma senti come scrivo, mannaggia! I miei scritti Echeggiano..." 
Invece, no. Proprio no. Quello che scrivi sobbolle, al massimo. E spesso si attacca al fondo, perché non ci sei stato abbastanza attento. 
Ci sono mail da stampare e conservare religiosamente sul comodino, accanto al bicchier d'acqua, al posto del Roipnol. Ugualmente efficaci contro l'insonnia e prive di effetti collaterali. Forse un po' di mal di stomaco: quello che ti viene quando devi rispondere a Emily Sbrodolonte, cercando tra le pieghe delle sue circonvoluzioni verbali l'appiglio per una risposta di senso compiuto. 
Smettiamo di scriverci addosso, quindi, e iniziamo a scrivere solo per gli altri. 

Confusione mentale: quella è una tragedia, e ne soffriamo tutti. Me per prima, che come ho già scritto altrove, a volte mi rileggo e mi chiedo se mi drogo. 
Purtroppo, nella testa dell'autore si affollano mille personaggi, situazioni e avvenimenti. I dialoghi gli si palesano d'improvviso, magari mentre sta facendosi la doccia o rispondendo al suo capo. E se i peggiori di noi non possono vivere senza un taccuino appresso, dove fissano la maggior parte dei loro pensieri in libertà, tutti abbiamo sperimentato come sia impossibile ricordarsi tutto quello che le nostre fertili menti partoriscono. Quello che dovremmo tener presente è che ben poco di quanto ci frulla in testa ha dignità sufficiente per esser reso pubblico. E quando ciò avvenga, sarebbe utile stabilire se si colleghi o meno con quanto abbiamo già scritto e ciò che scriveremo.  
Stampiamocelo bene in testa: noi sappiamo tutta la storia, il nostro lettore no. Gliela dobbiamo raccontare noi, ergo evitiamo di comportarci come se dovesse arrivarci da solo, a capire chi, come, cosa e dove. 
Vicende lasciate in sospeso e dimenticate. Personaggi minori che fanno i prepotenti, prendendosi il centro della scena, per poi svanire nel nulla. Per non parlare dell'utilizzo criminoso dei tempi verbali, con perfide alternanze di presente e passato (e allora, 'sta storia avviene oggi o ieri? no, perché cambia, eh...), per tacere del trapassato. I flashback sono efficaci, necessari e talvolta accattivanti. Ma se li raccontiamo tutti al passato remoto, come il resto della vicenda, il nostro lettore ritrova proiettato in un universo virtuale, dove personaggi vivi e morti si avvicendano su un unico palcoscenico, in uno spazio temporale indefinito ma definitivamente sfilacciato. 

Autobiografia: mayday, mayday. Lo ammetto: scritto da me fa un po' ridere. L'unico romanzo mai pubblicato dalla sottoscritta è un'autobiografia, e questo è un blog personale, dove racconto le vicende della mia famiglia. A mia discolpa affermo di essere stata strattonata per la giacca sia per fondare il blog, sia per scrivere i Marmocchi. Se quel che ti succede nella vita spinge gli altri a chiederti di raccontarlo, e tu pensi di essere in grado di riuscirci senza addormentarli a morte, ci puoi pure provare. 
Ma in linea di massima agli altri frega poco di quello che ci ha fatto quello s@@@o del prof di lettere del ginnasio, delle corna che ci ha messo il fidanzato in quinta superiore, o il dramma esistenziale che abbiamo vissuto quando è morto il nostro gatto. 
Pretendere di fare di una vita qualunque un romanzo immortale è un po' velleitario. E chi si sente scrittore ironico sappia di camminare sulle uova: l'ironia va padroneggiata, altrimenti si scade nella barzelletta. E solo Totti può scrivere un libro di barzellette. 

Monetizzare: c'è qualche illuso che pensa di fare i soldi scrivendo. Già si vede seduto da Vespa, col plastico di casa sua in centro allo studio. In realtà, la faccenda dei soldi gioca a nostro sfavore: ammettiamo pure che i nostri amici leggano con piacere le mail che gli spediamo, o che il nostro blog sia cliccato da più di qualcuno. Sono attività gratuite e molto democratiche: se diventiamo noiosi, il nostro lettore se la darà a gambe, tacendo per cortesia. 
Scrivere un libro, e pubblicarlo, prevede poi di venderlo, altrimenti non vale. E chi ha speso soldi per comperarsi il nostro romanzo, si vuole divertire a leggerlo. Vuole emozionarsi, ridere, piangere, vivere attimi di tensione o fuggire dentro a un sogno. Qualche che sia il genere scelto, dobbiamo dare a chi ci legge qualcosa. Altrimenti, avrà sprecato il suo denaro e sarà arrabbiato con noi. 
Non aspettiamoci quindi la stessa bonomia dei lettori ai quali siamo abituati, qualora ci reinventiamo pennivendoli. Saranno esigenti, severi, a volte cattivi. 
E' d'obbligo impegnarsi a fondo per non deluderli. Anche arrendendosi, se è per il bene della letteratura mondiale. 






Commenti

Post popolari in questo blog

Una vita che non posto: 8 marzo

Una famiglia tradizionale (???)

La Karly mi fa piangere!